13 ottobre 2008

Capitalismo all'italiana


(Questa lettera è apparsa nel Riformista dell'11 ottobre)
Le prime anticipazioni e le segnalazioni più tempestive del lavoro di Gianni Dragoni e Giorgio Meletti la buttano un po’ dolosamente sul sensazionalismo. Presentare il libro come l’ennesimo capitolo di un feuilleton oggi in voga ne attenua l’impatto su un pubblico in via di assuefazione a caste, scandali e privilegi. Perfino un recensore informato come Giulio Sapelli ha scritto (“Il Sole 24 Ore” di mercoledì scorso, pag. 16) che La paga dei padroni adotta una forma «densa dei vapori del populismo», mentre ben altra riflessione sarebbe necessaria «per creare un capitalismo ben temperato a cui tutti partecipino».
E invece il punto è proprio qui. Il libro non è un esercizio di pay (and vip) watching. La pietra dello scandalo è in questo caso un pretesto. Gli autori se ne servono per condurre sul capitalismo italiano proprio quella riflessione che Sapelli rimprovera loro di aver schivato. Scrupolo e rigore, ancorché indossati con leggerezza, sorreggono finalmente un’inchiesta giornalistica il cui titolo è un capolavoro di understatement e in cui la parola “etica” è impiegata con invidiabile parsimonia. I superstipendi «dipendono più dalla fedeltà che dalle capacità», sono la faccia indecente di «un capitalismo sempre meno capace di generare ricchezza», riflettono un sistema che sopravvive grazie a meccanismi controversi come le scatole cinesi e i patti di sindacato, puntello delle «multiproprietà dei soliti noti».
La classifica dei 100 italiani più pagati (pag. 263-267 del libro) non è istigazione all’invidia sociale. È il plastico che Bruno Vespa dovrebbe piazzare al centro dello studio televisivo, se mai si occupasse onestamente dell’argomento, per spiegare perché l’Italia è agli ultimi posti delle classifiche sulla mobilità sociale e intergenerazionale. Nei paesi meno ingessati la disparità delle fortune, le ricchezze che si costruiscono in una sola generazione, le carriere folgoranti, sono anche lo specchio di una società dinamica, imprevedibile, aperta. Nel libro di Dragoni e Meletti, almeno tra gli imprenditori di prima fila, l’unico outsider è Silvio Berlusconi. Gli altri nomi sono quelli che riecheggiano da decenni nell’inesorabile circuito dinastico-salottiero.
Da qualche anno, perfino nel mondo anglosassone, dove la tradizione anticapitalista e il virus populista sono meno diffusi che in Europa, si è incrinato il consenso sul modello interpretativo che considera un fattore univocamente positivo l’ipermotivazione economica del management aziendale: la sola banca dati del National Bureau of Economic Research, in cui confluisce quanto di meglio produce la ricerca economica, contiene almeno una decina di working paper recenti che mettono in discussione l’ortodossia che vede nei compensi astronomici lo specchio infallibile del binomio valore manageriale/creazione di ricchezza e avanzano l’ipotesi che sempre più spesso vi sia un conflitto di interessi negli organismi che deliberano i compensi e una rendita di posizione per i dirigenti.
Davvero il denaro, come ha scritto Marco Ferrante su queste pagine, è «la più immediata e condivisa misura del sé che l’uomo abbia inventato»? Forse in quella terra di nessuno che sopravvive tra le astrazioni accademiche e le aspirazioni liberiste. Nella storia raccontata da Dragoni e Meletti, nell’Italia di oggi, i privilegi che si autoelargiscono gli imprenditori-manager e gli oligarchi a sette zeri, Max Weber li avrebbe chiamati “prebende” («tipica ricompensa di principi, conquistatori vittoriosi o capi di partito di successo»). O un personaggio di Jonathan Coe «jobs for the boys».

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