20 ottobre 2008

Tutti antiamericani


L'editoriale di Antonio Polito nel Riformista di lunedì scorso sui nessi tra crisi finanziaria Usa e fattacci italiani lascia scaramanticamente sullo sfondo il rischio che la «vecchia sinistra europea», dopo aver «già perso tutto», si lasci pure incantare «dalle sirene del populismo post-americano». È vero che l’ossessione dell’insicurezza economica e sociale, fomentata dalla retorica del discorso pubblico, mette in circolo le pulsioni «razzistelle» e «fascistelle» che hanno generato gli episodi delle ultime settimane, ma il parterre di chi, di fronte ai guai di Wall Street e dei mercati mondiali, conta di incassare capital gain dalla diffusione dell’incertezza e della paura potrebbe essere più affollato di quanto si pensi.
Se la reazione agli episodi più eclatanti di intolleranza razziale e di squadrismo coreografico non lascia nei sondaggi di opinione poco più che un velo di angoscia per la tenuta del proprio spazio privato-familiare, se i mezzi di comunicazione rinunciano al racconto e all’analisi della realtà per propinare al pubblico pozioni ansiogene, se i corpi intermedi scavano trincee demagogiche e corporative più che offrire visioni e capacità di leadership, il rischio del «massimalismo dei ceti medi» che Emilio Gentile pone all’origine della trasformazione del fascismo in movimento di massa potrebbe non essere soltanto il prodotto di un’apprensione anacronistica e pessimista.
Il massimalismo si nutre per definizione di obiettivi polemici fortemente simbolici e la fissazione antiamericana serve da decenni allo scopo, soprattutto nell’Europa continentale. A chi ne è affetto, a destra e a sinistra, non sembra vero che all’insuccesso delle campagne militari e della dottrina di politica estera e di sicurezza della presidenza Bush possa sommarsi l’aspettativa di una crisi epocale della capacità di attrazione del modello americano tout court, del magnetismo esercitato da quell’insieme di diplomazia, immagine pubblica e cultura che Joseph Nye ha chiamato «soft power» e dall’alternativa «democratica e confortevole» che la società dei consumi ha rappresentato - rispetto agli stili di vita «repressivi, poveri e ingiusti» dei paesi pre e post-capitalistici - nella costruzione politico-sociale riassunta da Victoria de Grazia con la definizione di «irresistibile empire».
Con la prospettiva di un impero non più irresistibile, l’arretratezza economica della vecchia Europa (e le sue cause profonde) verrebbero provvidenzialmente coperte da indulto. Grazie alla fortunosa sopravvivenza di un modello sociale che sulla carta insegue uguaglianza e copertura universale, ma in realtà incentiva il compromesso con gli insider privilegiati, sarebbero di conseguenza riabilitati tutti gli elementi (rigidità normative, protezionismo, elevate aliquote fiscali e programmi redistributivi costosi e burocratizzati) che hanno fatto convergere le risorse pubbliche verso le categorie politicamente più forti e non sui ceti sociali in reale difficoltà.
Azzerando un secolo che ha visto crescere senza sosta il differenziale di crescita e il divario nel progresso tecnico, l’America in crisi irreversibile non sarebbe più la terra delle opportunità, la società aperta che ha consentito a milioni di persone di cambiare il proprio destino, il laboratorio delle politiche pubbliche che si formano anche grazie allo scontro micidiale tra interessi e idee, ma il crocevia a cui si danno finalmente appuntamento tutte le profezie sul destino ineluttabile del capitalismo.

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