29 novembre 2008

Il caravanserraglio di Rho

(Questa lettera compare oggi nel Riformista)
Nelle memorie dedicate agli anni trascorsi nella facoltà di legge dell'università di Harvard l’avvocato scrittore Scott Turow racconta che l’esercizio richiesto a ogni allievo consisteva nell’esporre, su uno stesso caso, sia gli argomenti dell’accusa che quelli della difesa. Ma non serve una star del firmamento legale americano per capire che anche nella vicenda del concorso di Rho abbiano buone ragioni non solo i candidati che ritengono di aver lealmente svolto le loro prove, ma pure quelli che di fronte alle plateali irregolarità verificatesi durante la selezione ne chiedono l’annullamento.
Comunque vada a finire la vicenda, fioccheranno i ricorsi e ci sarà lavoro per giudici e avvocati. Una ragione di più perché l’autorità politica e gli organi di autogoverno della magistratura e delle professioni colgano la palla al balzo per cancellare l’onta della settimana scorsa e cambiare radicalmente le modalità di reclutamento e abilitazione di giudici (ordinari e amministrativi), notai e avvocati. I concorsi di oggi sono, nel migliore dei casi, strumenti particolarmente costosi e inefficienti per verificare una preparazione formalistica, libresca e astratta. Nel peggiore, sono un’ordalia insensata che testa soltanto la resistenza fisica e nervosa dei candidati o, peggio, un rito di passaggio che ne sanziona l’attitudine al networking e all’intrallazzo.
Il concorso per l’accesso alla magistratura è diventato una specie di specchio delle mutazioni sociali e antropologiche dell’Italia contemporanea. Non è più il filtro rigoroso e iniziatico a cui arrivava qualche centinaio di candidati. La moltiplicazione delle facoltà di legge ormai alimenta ogni tornata con falangi di aspiranti. Al torneo di Rho si sono iscritti in 30mila e anche i 5mila effettivamente presenti costituiscono una quantità enorme, governabile soltanto con un congegno privo di meccanismi istituzionalizzati che incentivano la negligenza o l’inquinamento. Perfino gli espedienti concepiti per garantire un minimo di decenza (come il tatuaggio, il giorno prima che inizino le prove, dei codici consentiti e la scelta dei temi alle cinque del mattino per evitare fughe di notizie) danno la misura di un sistema votato al parossismo legalistico, con regole astruse che inseguono, trafelate, trasgressioni sempre più originali.
Privo di ogni collegamento con la formazione universitaria e di qualunque nesso razionale con l’effettivo esercizio delle funzioni, il concorso attuale seleziona indifferentemente giudici e procuratori, penalisti e civilisti, futuri capi degli uffici e solisti anarchici. L’adattamento della formazione di base al lavoro effettivamente svolto è ancora quasi del tutto rimesso alla buona volontà e al rigore dei singoli. Per i magistrati che oggi lavorano nei tribunali italiani i giorni del concorso sono nient’altro che un’impoetica madeleine.
Ma è soprattutto la visione della magistratura come pezzo di classe dirigente e potere autonomo, piuttosto che come corpo professionale specializzato nell’erogazione di un servizio, che tiene in piedi un abominio come il caravanserraglio di Rho. Alla sacralità dello status non può non corrispondere l’apparato simbolico della procedura di reclutamento: la durata del rito, la cerimonia dell’investitura dei commissari-sacerdoti depositari di un potere assoluto, il panico e il logorìo psicofisico degli aspiranti alla cooptazione. L’uno senza l’altra non sta più in piedi.

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