15 dicembre 2008

Il caso Brunetta

Renato Brunetta è ormai un caso di studio politico. La misura di un peso sproporzionato alla caratura convenzionalmente attribuita all’incarico svolto è rilevabile, per il ministro della funzione pubblica, con una ricerca d’archivio. Dall’8 maggio scorso (data di giuramento del governo) il Corriere della sera lo ha citato 496 volte, al quarto posto tra i ministri più presenti nelle pagine del giornale, dietro solo a Berlusconi, Tremonti e Maroni. L’ubiquità brunettiana non si deve solo a un’applicazione particolarmente riuscita delle moderne tecniche di spin, quanto alla pratica sistematica di un’azione politica e di una presenza nel dibattito pubblico che non riconosce domini riservati di titolarità ministeriale esclusiva. La discussione sull’età di pensionamento delle donne è un’altra declinazione di questa pratica, con lo spiazzamento di almeno tre ministri con competenza diretta nella materia (economia, lavoro e pari opportunità) e l’ormai puntuale autocollocazione al centro della scena.
Nella costruzione della sua immagine pubblica, Brunetta è un caso esemplare di contaminazione tra l’efficacia percepita del lavoro politico issue-oriented e l’organizzazione febbrile di una rappresentazione continua, dalle misure di successo, come la battaglia contro l’assenteismo negli uffici pubblici, alle scaramucce con chiunque capiti a tiro di polemica (la Cgil, D’Alema, i due giovani contestatori napoletani di San Gregorio Armeno), alla trasformazione di una campagna denigratoria in strumento di comunicazione (l’istituzione del premio alla vignetta più simpaticamente antibrunettiana), all’impiego dell’iperbole da talk show (l’autoinclusione nella lista degli economisti candidati a un sicuro Nobel, disertata solo per eccesso di spirito di servizio).
L’arma più politica di tutte rimane tuttavia l’invasione di campo reiterata e orgogliosamente rivendicata, perfino se allo straripamento reagisce non il collega danneggiato, ma un terzo particolarmente coriaceo. Come è accaduto a ottobre, quando il titolare della Funzione pubblica dice che il Parsifal inserito nel cartellone del San Carlo di Napoli è «opera dai costi eccessivi» e l’eruditissimo Paolo Isotta lo crocefigge dal Corriere («Ma codesto Brunetta quali studi ha fatto? Come misurare il suo livello di cultura? Che cosa legge oltre ai fumetti?»). Senza fiaccare la resistenza del ministro, il quale anzi replica che «l’elevato animo di pochi pretende di finanziarsi con i soldi di tutti, che, per giunta, devono stare zitti altrimenti si segnalano come ignoranti».
Il Brunetta di oggi è il frutto di un lungo apprendistato trascorso tra la vocazione accademica e le sirene della politica, e il suo è anche un modo molto sui generis di vivere la transizione dal milieu dell’alta consulenza alla politica in proprio, destino che nel governo Berlusconi lo accomuna agli ex socialisti Tremonti Sacconi Frattini, ma con il tratto distintivo del talento comunicativo primordiale e del rifiuto programmatico dell’operare discreto o della mimetizzazione come opzione puramente autoconservativa. E il giornalismo di opinione mainstream, lungamente frequentato anche dalle pagine del Sole 24 Ore, si mescola, nella sua biografia, alla divulgazione corsara dei pamphlet di battaglia promossi con Libero e Vittorio Feltri.
Questa attitudine espansionistica e interventista, da meccanica dei fluidi applicata alla politica, candida naturalmente Brunetta - nell’immobilismo silente e difensivo, molto prima repubblica, dei suoi colleghi di governo - al ruolo di catalizzatore di un riformismo ottativo. Con il non irrilevante corollario che proprio tutta questa visibilità industriosa rende complicato qualunque disegno, tra i suoi, di sbarazzarsene senza fare rumore.

(Questo post è stato pubblicato dal Riformista del 16 dicembre 2008)

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