24 ottobre 2008

Il porcellum a Casal di Principe


Walter Veltroni ha chiesto le dimissioni di Nicola Cosentino, sottosegretario di Forza Italia tirato in ballo dai pentiti della camorra casalese, rivendicando di aver «fatto la campagna elettorale andando nelle zone dove la criminalità organizzata è più radicata». Il segretario del Pd si riferisce ad alcuni comuni della provincia di Caserta, dove i clan condizionano da decenni l’economia, la politica e l’esistenza quotidiana: Casal di Principe e i centri confinanti, a cavallo tra l’agro aversano e il basso Volturno. Posti in cui vivere è faticoso e ancora più difficile è raccogliere e organizzare le persone disponibili a concedersi qualche forma di impegno civile e politico.
Nonostante tutte le difficoltà, dalla fine degli anni Ottanta anche lì si videro fiorire iniziative, campagne, gruppi di volontariato, spesso raccolti intorno a preti coraggiosi (uno di loro, don Giuseppe Diana, fu martirizzato dalla camorra il 19 marzo 1994), e anche esperimenti di militanza politica disposti a contrastare usi consolidati e fedeltà granitiche, che culminarono con l’insediamento proprio a Casal di Principe di un’amministrazione guidata da un sindaco Ds. In quegli anni, magistrati e apparati di sicurezza trovarono più d’uno disposto a denunciare a viso aperto estorsioni e violenze.
Una “primavera”, come la retorica antimafia aveva chiamato fenomeni analoghi in Sicilia, in cui fece le sue prove una generazione di dirigenti politici e di leader della società civile che oggi sembra ripiombata nelle catacombe. Si aggrappa ai blog e a qualche sporadica iniziativa locale, ma sopravvive lontano dalla politica. Di quella generazione non pare esservi traccia negli organigrammi del Pd campano e casertano. Chi si oppone oggi, a Casal di Principe e dintorni, alla macchina di consenso della destra? Se si digita “Cosentino” nel motore di ricerca interno del sito web del Pd di Caserta, compare un solo risultato: la locandina della “festa democratica” in un comune della provincia, dove il 12 settembre scorso i dirigenti locali, in linea con le direttive inclusive e bipartisan dell’organizzazione centrale, hanno invitato il sottosegretario all’Economia come ospite d’onore.
È vero che Veltroni è andato da quelle parti, prima e dopo la campagna elettorale. Ma proprio Casal di Principe e i comuni circostanti, grazie alla legge elettorale vigente e al modo in cui il Partito democratico se ne è servito per dislocare in Parlamento la propria nomenclatura, non hanno tra le forze progressiste un solo rappresentante nelle aule parlamentari. Sei dei 18 eletti nei collegi di Camera e Senato in cui i residenti di quei centri hanno votato, non hanno nulla a che fare con la Campania e la provincia di Caserta. Gli altri 12, benché residenti o attivi nella regione, non hanno alcun legame con le terre in cui la camorra è padrona.
Ma dove, se non a Casal di Principe, il “porcellum” poteva essere usato a fin di bene? Per fare posto a qualcuno che lì si era impegnato o che davvero conoscesse i luoghi (un nome su tutti: l’ex parlamentare dei Ds Lorenzo Diana, da 13 anni sotto scorta, contro il quale i clan organizzarono un attentato fortunatamente mai realizzato e per il quale la deroga alla regola dei tre mandati sarebbe stata un atto di onorevole sensatezza), non si può dire che i selezionatori romani non avessero margini di manovra, spostando, per esempio, in collegi meno bisognosi di rappresentanza reale i pezzetti da novanta che dovevano essere a tutti costi portati in Parlamento.
Gli elettori progressisti di Casal di Principe, San Cipriano d’Aversa, Castelvolturno, Villa Literno, Grazzanise, non avrebbero avuto davanti a loro, in cabina, il parterre du roi di non campani e non casertani che oggi siede in Parlamento (la collaboratrice di un ex ministro della Margherita, la moglie del presidente della Regione, un ex vicepresidente del consiglio, un ex portavoce di Palazzo Chigi, un ex segretario confederale della Uil). Ma se al loro posto, nelle schede, si fosse visto almeno un nome familiare, chi può escludere che si sarebbe contato qualche voto in più?

22 ottobre 2008

Bocconiani d'assalto

La chiusura corporativa e la difesa dei privilegi sono chiavi di lettura utili anche per comprendere i sussulti che tornano a scuotere l’università italiana. Ancor prima che la pantera si risvegliasse, le acque erano state agitate da una ricerca di Roberto Perotti, economista della Bocconi dal curriculum internazionale (L'università truccata, Einaudi, 183 pagine, 16 euro) e da una serie di interventi polemici, sullo stesso argomento, del suo collega Tito Boeri .
Il libro ha l’efficacia del pamphlet e l’anima coriacea del lavoro scientifico. Spiega Perotti che la selezione dei professori è una delle palle al piede dell’istruzione superiore italiana: invece della peer review e del confronto con il mondo, da noi è all’opera il solito meccanismo della fedeltà e della cooptazione. A pagina 22 c’è un grafico sugli intrecci familiari tra commissari e candidati nei concorsi universitari complesso quanto una tavola delle più involute partecipazioni incrociate nella finanza dell’era Cuccia.
Boeri ha scritto nella prima pagina di Repubblica, il giorno della scontata elezione plebiscitaria del rettore della Sapienza (3 ottobre 2008), che il comportamento familista e feudale di Luigi Frati, già preside di medicina (moglie, figlio e figlia diventati professori e aule dell’università utilizzate come cosa propria) è indecente e inammissibile. Negli epicentri del potere baronale, soprattutto a Roma e a Bari (quest’ultimo ateneo particolarmente emergente nelle denunce di Perotti e Boeri), non si riesce a capire perché un uomo di notevole successo mondano, rampollo fortunato della borghesia meneghina dell’università e delle professioni, debba comportarsi come una iena televisiva che irrompe nell’aula (patologia generale) in cui i figli del preside e del direttore del dipartimento intrattengono gli ospiti della loro festa nuziale.
Di fronte ai fatti, alcuni hanno provato a mettere in discussione il metodo di indagine di Perotti, ma non i fatti denunciati da Boeri. Gli altri - la maggioranza, Frati in testa - hanno sapientemente taciuto Il punto, naturalmente, non è prendere le parti degli economisti milanesi, che si difendono da soli e da tribune di impareggiabile risonanza, ma piuttosto mettere in risalto i caratteri peculiari di una reazione corporativa. Un famoso matematico, già protagonista di dure battaglie contro lo strapotere della facoltà di medicina, ha duellato (Corriere della sera, 7 e 8 ottobre 2008) sul corretto uso dei dati Ocse con Perotti, il quale ha replicato alle sue argomentazioni aggiungendo una postilla velenosa: «Il professore Figà Talamanca è ordinario alla Sapienza: perché non si dissocia dalla scandalosa elezione del rettore Frati, invece di disinformare il lettore?» Sorte analoga è toccata ad altri due docenti dell’ateneo romano, gli informatici Mei e Panconesi, assertori dell’ipotesi che la sospetta ricorrenza di cognomi nei ranghi delle università italiane non sia un fenomeno più apprezzabile del tasso di omonimia che si registra nel paese. «Il vostro tempo - hanno scritto Perotti e Boeri nel sito lavoce.info - sarebbe stato molto meglio speso se vi foste dissociati pubblicamente dalla scandalosa elezione del rettore Frati».
Gli obiettori non silenti alla campagna degli economisti milanesi sono tutti della Sapienza o di università meridionali. Ma non si tratta solo di vecchi baroni o giovani clientes. La frattura nella comunità accademica italiana dunque è più geo-politica che cultural-generazionale. I tecnocrati dell’economia globalizzata che vanno in televisione e scrivono nelle prime pagine dei grandi giornali contro gli adepti di una confratenita autarchica e protetta dall’ombrello pubblico, affezionata alla sua costituzione materiale e alla regola del suo cursus iniziatico. La fucina dei cervelli del nord operoso che guarda alle eccellenze europee (Bocconi) contro il mastodonte parastatale e romanocentrico che si adatta a qualunque riforma purché non cambi realmente nulla (Sapienza). E anche una divaricazione nell’intendere i percorsi individuali: l’interventismo brillante, progressista e cosmopolita degli economisti bocconiani contro la concezione dell’accademico potente nella sua cerchia e nella comunità locale ma invisibile nel dibattito pubblico. Come il professor Frati che, quando non organizza feste di famiglia, è un mago del low profile.

20 ottobre 2008

Tutti antiamericani


L'editoriale di Antonio Polito nel Riformista di lunedì scorso sui nessi tra crisi finanziaria Usa e fattacci italiani lascia scaramanticamente sullo sfondo il rischio che la «vecchia sinistra europea», dopo aver «già perso tutto», si lasci pure incantare «dalle sirene del populismo post-americano». È vero che l’ossessione dell’insicurezza economica e sociale, fomentata dalla retorica del discorso pubblico, mette in circolo le pulsioni «razzistelle» e «fascistelle» che hanno generato gli episodi delle ultime settimane, ma il parterre di chi, di fronte ai guai di Wall Street e dei mercati mondiali, conta di incassare capital gain dalla diffusione dell’incertezza e della paura potrebbe essere più affollato di quanto si pensi.
Se la reazione agli episodi più eclatanti di intolleranza razziale e di squadrismo coreografico non lascia nei sondaggi di opinione poco più che un velo di angoscia per la tenuta del proprio spazio privato-familiare, se i mezzi di comunicazione rinunciano al racconto e all’analisi della realtà per propinare al pubblico pozioni ansiogene, se i corpi intermedi scavano trincee demagogiche e corporative più che offrire visioni e capacità di leadership, il rischio del «massimalismo dei ceti medi» che Emilio Gentile pone all’origine della trasformazione del fascismo in movimento di massa potrebbe non essere soltanto il prodotto di un’apprensione anacronistica e pessimista.
Il massimalismo si nutre per definizione di obiettivi polemici fortemente simbolici e la fissazione antiamericana serve da decenni allo scopo, soprattutto nell’Europa continentale. A chi ne è affetto, a destra e a sinistra, non sembra vero che all’insuccesso delle campagne militari e della dottrina di politica estera e di sicurezza della presidenza Bush possa sommarsi l’aspettativa di una crisi epocale della capacità di attrazione del modello americano tout court, del magnetismo esercitato da quell’insieme di diplomazia, immagine pubblica e cultura che Joseph Nye ha chiamato «soft power» e dall’alternativa «democratica e confortevole» che la società dei consumi ha rappresentato - rispetto agli stili di vita «repressivi, poveri e ingiusti» dei paesi pre e post-capitalistici - nella costruzione politico-sociale riassunta da Victoria de Grazia con la definizione di «irresistibile empire».
Con la prospettiva di un impero non più irresistibile, l’arretratezza economica della vecchia Europa (e le sue cause profonde) verrebbero provvidenzialmente coperte da indulto. Grazie alla fortunosa sopravvivenza di un modello sociale che sulla carta insegue uguaglianza e copertura universale, ma in realtà incentiva il compromesso con gli insider privilegiati, sarebbero di conseguenza riabilitati tutti gli elementi (rigidità normative, protezionismo, elevate aliquote fiscali e programmi redistributivi costosi e burocratizzati) che hanno fatto convergere le risorse pubbliche verso le categorie politicamente più forti e non sui ceti sociali in reale difficoltà.
Azzerando un secolo che ha visto crescere senza sosta il differenziale di crescita e il divario nel progresso tecnico, l’America in crisi irreversibile non sarebbe più la terra delle opportunità, la società aperta che ha consentito a milioni di persone di cambiare il proprio destino, il laboratorio delle politiche pubbliche che si formano anche grazie allo scontro micidiale tra interessi e idee, ma il crocevia a cui si danno finalmente appuntamento tutte le profezie sul destino ineluttabile del capitalismo.

13 ottobre 2008

Capitalismo all'italiana


(Questa lettera è apparsa nel Riformista dell'11 ottobre)
Le prime anticipazioni e le segnalazioni più tempestive del lavoro di Gianni Dragoni e Giorgio Meletti la buttano un po’ dolosamente sul sensazionalismo. Presentare il libro come l’ennesimo capitolo di un feuilleton oggi in voga ne attenua l’impatto su un pubblico in via di assuefazione a caste, scandali e privilegi. Perfino un recensore informato come Giulio Sapelli ha scritto (“Il Sole 24 Ore” di mercoledì scorso, pag. 16) che La paga dei padroni adotta una forma «densa dei vapori del populismo», mentre ben altra riflessione sarebbe necessaria «per creare un capitalismo ben temperato a cui tutti partecipino».
E invece il punto è proprio qui. Il libro non è un esercizio di pay (and vip) watching. La pietra dello scandalo è in questo caso un pretesto. Gli autori se ne servono per condurre sul capitalismo italiano proprio quella riflessione che Sapelli rimprovera loro di aver schivato. Scrupolo e rigore, ancorché indossati con leggerezza, sorreggono finalmente un’inchiesta giornalistica il cui titolo è un capolavoro di understatement e in cui la parola “etica” è impiegata con invidiabile parsimonia. I superstipendi «dipendono più dalla fedeltà che dalle capacità», sono la faccia indecente di «un capitalismo sempre meno capace di generare ricchezza», riflettono un sistema che sopravvive grazie a meccanismi controversi come le scatole cinesi e i patti di sindacato, puntello delle «multiproprietà dei soliti noti».
La classifica dei 100 italiani più pagati (pag. 263-267 del libro) non è istigazione all’invidia sociale. È il plastico che Bruno Vespa dovrebbe piazzare al centro dello studio televisivo, se mai si occupasse onestamente dell’argomento, per spiegare perché l’Italia è agli ultimi posti delle classifiche sulla mobilità sociale e intergenerazionale. Nei paesi meno ingessati la disparità delle fortune, le ricchezze che si costruiscono in una sola generazione, le carriere folgoranti, sono anche lo specchio di una società dinamica, imprevedibile, aperta. Nel libro di Dragoni e Meletti, almeno tra gli imprenditori di prima fila, l’unico outsider è Silvio Berlusconi. Gli altri nomi sono quelli che riecheggiano da decenni nell’inesorabile circuito dinastico-salottiero.
Da qualche anno, perfino nel mondo anglosassone, dove la tradizione anticapitalista e il virus populista sono meno diffusi che in Europa, si è incrinato il consenso sul modello interpretativo che considera un fattore univocamente positivo l’ipermotivazione economica del management aziendale: la sola banca dati del National Bureau of Economic Research, in cui confluisce quanto di meglio produce la ricerca economica, contiene almeno una decina di working paper recenti che mettono in discussione l’ortodossia che vede nei compensi astronomici lo specchio infallibile del binomio valore manageriale/creazione di ricchezza e avanzano l’ipotesi che sempre più spesso vi sia un conflitto di interessi negli organismi che deliberano i compensi e una rendita di posizione per i dirigenti.
Davvero il denaro, come ha scritto Marco Ferrante su queste pagine, è «la più immediata e condivisa misura del sé che l’uomo abbia inventato»? Forse in quella terra di nessuno che sopravvive tra le astrazioni accademiche e le aspirazioni liberiste. Nella storia raccontata da Dragoni e Meletti, nell’Italia di oggi, i privilegi che si autoelargiscono gli imprenditori-manager e gli oligarchi a sette zeri, Max Weber li avrebbe chiamati “prebende” («tipica ricompensa di principi, conquistatori vittoriosi o capi di partito di successo»). O un personaggio di Jonathan Coe «jobs for the boys».

06 ottobre 2008

Vent'anni di meno

Anche qui si vorrebbe avere l'età per votare Giulia Innocenzi.